5 domande sull’innovazione che nessuno si fa

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Sommario:

  1. Exploration o exploitation?
  2. Più invenzioni o maggiore efficienza?
  3. Centri di ricerca o invenzioni dalla strada?
  4. Crowdfounding o professional investors?
  5. Accelerazione o incubazione?

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[su_column size=”3/5″]Periodo rovente per l’innovazione. Sia a livello europeo che a casa nostra c’è un gran fermento sul fronte delle politiche di sostegno agli startupper. La scorsa estate Emma Bonino, Ministro degli Affari Esteri, ha lanciato l’iniziativa #DestinazioneItalia, «creando una task force, molto snella, chiamata ad elaborare in tempi rapidi un rapporto, che andrà condiviso con tutti i soggetti – parti sociali, realtà territoriali, potenziali investitori – che svolgono un ruolo chiave per l’attrazione degli investimenti esteri».[/su_column][/su_row]

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Nelle stesse ore, Neelie Kroes, Vicepresidente della Commissione Europea, varava un piano di finanziamenti per le startup pari a 100 milioni di euro dichiarando che «l’Europa ha bisogno di più innovazione e di puntare maggiormente sull’economia digitale, e ciò comincia con un migliore ecosistema per le start-up. Stiamo dando un sostegno concreto lì dove crediamo ce ne sia bisogno».

Sono segnali importanti della voglia di ripartire, e un’occasione per iniziare a porsi domande che altrimenti rimarrebbero in sordina.

1. Exploration o exploitation?

Le politiche europee di settore, e le ultime dichiarazioni della Bonino (ma con Passera la questione non era molto differente), poggiano sull’esplicito assunto che le nostre economie possano rimettersi in piedi puntando sulla creazione di NUOVE realtà imprenditoriali.

In realtà, non esistono evidenze empiriche che avallino – sia pur in via probabilistica – questo approccio.

Anzi, sembra esservi una certa convergenza nel verificare una correlazione fra longevità dell’impresa e relativa prosperità.

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Le aziende più longeve

Hanno imparato come rimanere sul mercato.
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Le aziende con maggiori anni di attività sviluppano una serie di meta-competenze (manageriali) che le portano ad apprendere come rimanere efficacemente sul mercato. Le imprese giovani, di contro, sono più soggette a soffrire le asperità della concorrenza. Tale condizione di debolezza non sembra poter essere mitigata dall’iniezione di capitali, ovvero da politiche di supporto all’incubazione o all’accelerazione di nuove aziende.

2. Centri di ricerca o invenzioni dalla strada?

Nonostante i numerosi tentativi, nessun teorico dell’innovazione è in grado di dimostrare in via definitiva che le migliori invenzioni avvengano nei centri di ricerca.

Allo stesso tempo, però, sussistono numerosi fattori che mostrano come le innovazioni a maggior valore aggiunto ed impatto economico si posizionino in settori altamente tecnologici, specializzati, e che richiedono investimenti massivi in tecnologie all’avanguardia.

L'acceleratore del CERN a Ginevra

Esempi eclatanti come il CERN di Ginevra, o il consorzio aerospaziale europeo, mostrano che le “disruptive innovations” del XXI secolo sono realizzate all’interno di contesti istituzionalmente impegnati in attività di ricerca e sviluppo. Certo, permangono casi celebri di innovazioni epocali realizzate a partire da piccole industrie (Facebook e Google sono l’esempio più eclatante), ed è per questo che a livello di policy ci si dovrebbe chiedere qual è il giusto mix di luoghi dell’innovazione di cui un Paese vuole dotarsi.

3. Più invenzioni o maggiore efficienza?

Non si fa alcun riferimento ad un’innovazione dei processi, dei modelli di business, dei canali distributivi. L’unica innovazione concepibile nelle politiche attualmente presenti è quella di prodotto, meglio ancora se digital oriented. Ma l’Italia, è cosa nota, non ha problemi di prodotto.

Anzi.

L’eccellenza manifatturiera Made in Italy è forse l’unico punto su cui non si discute. Ciò che manca, semmai, è una visione internazionale del business, strutture commerciali solide, efficientamento delle pratiche produttive.

Produttività

Un’azienda per tutte testimonia questa dinamica: la Nuovo Pignone. Ceduta nel 1993 dall’ENI alla General Electric, in 15 anni è un’azienda che rinasce, fino a diventare oggi capofila della divisione Oil & Gas di GE Energy. Una delle principali mancanze del nostro tessuto economico è la carenza di managerialità nel personale aziendale. Non un problema di prodotto dunque, ma di gestione. Una questione culturale. Una carenza che rischiamo di ritrovarci nelle startup che tanto si cerca di incentivare.

4. Crowdfounding o professional investors?

Questa domanda, più che tecnica, assume tratti politici. Le ultime policy sono orientate a sostenere processi di innovazione mediati da partner istituzionali. Questa prospettiva è ragionevole, perché l’ingresso di selezionatori professionali abbassa il rischio di perdite per il Paese finanziatore.

Il gatto e la volpe

Tuttavia, concedendo finanziamenti ad un ristretto pool di attori selezionati, si compie da un lato un’alterazione delle naturali dinamiche di mercato (cosa accade se un investor professionale si vede diminuire il proprio rischio di impresa per l’intervento di finanziamenti pubblici?) dall’altro si inibisce l’insorgere di forme di azionariato diffuso che, invece, sarebbero possibili sostenendo in via preferenziale piattaforme di crowdfounding.

La scelta di finanziare professional investors piuttosto che piattaforme di crowdfounding non è neutra rispetto alla distribuzione di potere fra i diversi attori coinvolti nella filiera. Il rischio è di costruire un impianto di finanziamenti che agevoli più gli intermediari professionali che non le startup vere e proprie.

5. Accelerazione o incubazione?

No, non sono la stessa cosa. E non che vi sia unitarietà di visioni su quando si accelera e quando, invece, si incùba. Tenendo ferma l’interpretazione di Impulsa, possiamo ragionevolmente affermare che se spingiamo la prima puntiamo su idee con probabilità di successo relativamente più alta.

Se la strada è quella di finanziare attori istituzionali che guidino lo sviluppo dell’ecosistema di startup, almeno una riflessione su questi aspetti sarebbe utile farla.

Manca un modello. Ed è rischioso

Le provocazioni di questo articolo scaturiscono da un progetto di ricerca in cui mi sono da poco coinvolto e che mira sostanzialmente a definire qual è, se ne esiste uno, il modello italiano attualmente più in voga per l’innovazione.

Come teorico dell’innovazione, infatti, sono animato dal desiderio di comprendere se il contesto italiano possa mutuare in maniera indolore tutte le pratiche in voga oltre oceano per sostenere lo sviluppo dell’ecosistema delle startup. Pur in mancanza di dati definitivi, pare ragionevole evidenziare l’imprtanza di declinare su un contesto culturale peculiare, quello italiano, gli approcci che si sono rivelati vincenti in altre zone del mondo.

In ogni caso, l’assenza apparente di un modello chiaro di innovazione rischia di pesare in maniera decisiva sulle politiche di incentivazione allo sviluppo di startup.

L’università italiana è ricca di colleghi che potrebbero dare un valido contributo. Resta da capire se la voce dell’accademia rimarrà inascoltata dai policy maker.