Del fare impresa in italia

In Featured, Riflessioni

Alziamo per un momento lo sguardo da quel fermento di storie che negli ultimi tempi hanno affollato questo blog, per riflettere sull’ecosistema italiano nel suo complesso. 

Lo facciamo attraverso 2 storie che raccontano un’imprenditorialità molto diversa, eppure unita da una comune difficoltà nello scaricare a terra il potenziale creativo che contraddistingue le nostre aziende.

Nelle ultime settimane, quasi per caso, ho collezionato ritagli di giornali e schermate di blog presi qua e là sul tema del fare impresa in Italia. Mi sembravano frammenti non connessi fra loro, fino a quando non ho trovato un filo rosso che lega almeno 2 delle storie che ho collezionato.

L’impresa che non trova lavoratori

La prima è salita alla ribalta delle cronache estive. Giovanni Pagotto, imprenditore veneto nel settore plastico, dichiara di non trovare giovani italiani disposti a lavorare in fabbrica.

GIOVANNI PAGOTTO ARREDOPLAST

Racconta di ragazzi che si presentano ai colloqui accompagnati dalla mamma, o di giovani che rifiutano il lavoro perché stanno studiando per la patente. Uno scenario desolante che ribalta la cantilena sul lavoro che non c’è e la crisi che incalza senza pietà.

«Assumo ma troviamo solo stranieri. Perché? Gli italiani non hanno fame». Giovanni Pagotto, Agosto 2013

Di qualche anno prima, sempre in estate (chissà perché?!) è la storia di Sergio Rossi, ardito imprenditore marchigiano che per un mese tenta l’impresa di “campare” con lo stesso stipendio dei propri operai. Risultato? “Al 21 del mese i nostri soldi erano già finiti”, proprio come cantava Battisti.

L’impresa che aumenta gli stipendi

Rossi aumenta gli stipendi di tutti gli operai, e diventa baluardo di un welfare aziendale che sfida il sistema imprenditoriale italiano, mettendo i collaboratori al centro, al fine di renderli protagonisti del progetto di impresa.

Queste storie, così apparentemente lontane, raccontano una stessa (diversa) Italia. Imprenditori che sembrano comprendere le difficoltà del momento e si mettono in gioco, tendendo una mano a quella parte d’Italia alla disperata ricerca di un lavoro.

Il tasso di disoccupazione giovanile è del 39,5%. Al Sud picco del 51% per le donne.

Nel frattempo, fra chi offre posti di lavoro e non trova operai, o chi invece gli operai ce li ha, e tenta di mettersi nei loro panni, c’è quel marasma di conversazioni politico-economico-sociali che affollano i talk show.

L’impresa raccontata dagli intellettuali

Ad esempio, in tanti si scagliano contro la recente manovra pro lavoro, per riportare l’attenzione sui problemi cronici che affliggono il sistema paese, della produttività che non arriva ai livelli che servono.


Carloalberto Carnevale Maffè

In questo gran parlare, gran agitarsi, gran discutere, si rischia, come sempre, di perdere d’occhio un punto chiave: l’altro capo del filo rosso che lega imprenditoria vecchia e nuova.

In questo dire e smentire, avanza l’armata dei pro-startup. Una cordata di intellettuali, imprenditori, consulenti e sedicenti esperti che hanno trovato la ricetta perfetta per salvare l’Italia.

Questo piccolo grande esercito vuole sostituire il vecchio (anche quando propone posti di lavoro, o aumenta gli stipendi) e portare dentro il nuovo. In un claim? “Saranno le startup a portarci fuori dalla crisi“. Snelle, leggere, informali, progressiste. Le startup potranno finalmente costruire una nuova economia, libere dai fardelli del passato.

L’impresa fatta dagli startupper

Se non sbaglio era proprio Riccardo Donadon, patron di h-farm, a dichiarare che le startup non sono state capite, e che l’Italia è un paese di startup.

In effetti, il bello delle startup è che non sono schiave di una path dependence che ne limita le traiettorie di sviluppo e le possibilità di esplorare nuove opportunità di business. Allo stesso tempo, però, una startup presenta le debolezze congenite che dipendono dal suo essere, appunto, startup.

Riccardo Donadon H-Farm

Non esistono inoltre studi comprovati che dimostrino la produttività a valere nel tempo di queste aziende, nè la loro capacità di innestarsi nel tessuto italiano per scaricarvi a terra – a livello sociale – i frutti del proprio lavoro.

Chi mi conosce sa che prendo egualmente le distanze da provocazioni ‘a la Pagotto-Rossi, quanto da dichiarazioni come quelle di Riccardo Donadon.

Una sana via di mezzo sarebbe chiedere troppo?