Con la diligenza del buon padre di famiglia

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Un mio amico l’altro giorno mi ha detto che il ceto medio sta scomparendo.

Essendo una persona che stimo tantissimo, ho creduto che fosse vero.

Ed ho pensato a quante cose accadono in giro che, come gocce d’acqua lungo una stalattite, cambiano silenziosamente le nostre vite senza che neanche ce ne accorgiamo.

Poi un momento dopo mi sono chiesta quali fossero i motivi di questo passaggio epocale. E soprattutto, noi che dal ceto medio siamo stati allevati, cosa stiamo diventando esattamente?

Ultime tracce del ceto medio? Turisti e residenti su un vaporetto a Venezia.

Un passo indietro

Partiamo col definire un paio di aspetti fondamentali: ho un lavoro, vivo in affitto, non so dove sarò tra tre mesi, ma sono irrimediabilmente felice.

Avendo vissuto a Milano per molti anni, so di non essere l’unica a vivere questa condizione. So che molti giovani come me condividono la mia stessa precarietà ed il mio stesso entusiasmo insieme.

Siamo forse semplicemente persone drogate di adrenalina quotidiana? O siamo solo perfezionisti in cerca della “quadratura perfetta” delle cose? E soprattutto, una volta trovata, ci fermeremo mai davvero?

Chi lo sa. Di certo, è proprio per la vitalità che riusciamo a sublimare nella nostra condizione precaria.

Non possiamo più essere assimilati a quello che un tempo era chiamato “ceto medio”. Esso infatti si distingueva per una caratteristica fondamentale: la stabilità.

La stabilità consentiva di affrontare la vita ed i consumi in un modo completamente diverso da quello attuale, e dava alle aziende leve molto più certe rispetto ai propri clienti.

Si nasceva in un posto e con tutta probabilità si formava famiglia nelle vicinanze. Si trovava un lavoro, che veniva mantenuto fino alla pensione.

Tutto questo dava delle certezze, dei punti fermi, definendo ciò che era “giusto” da ciò che era “sbagliato”.

In un tale impianto di sicurezze, le persone si muovevano secondo logiche abbastanza anticipabili, e per questo motivo anche le aziende non riscontravano troppe difficoltà nel capire il consumatore: un’azione di Marketing, ad esempio, aveva effetti molto più prevedibili.

Ma torniamo a questo mio amico, e diamogli un nome: si chiama Antonio, ed è una persona che osserva. Ecco perché si è accorto che il ceto medio probabilmente sta evolvendo in qualcos’altro.

Egli di per sé è l’espressione di questa sorta di precariato (per scelta talvolta obbligata, ma non per questo infruttuosa) che si contrappone alle certezze delle generazioni che ci hanno preceduto: cioè, sintetizzando quanto detto, Antonio è di fatto un irriducibile cercatore.

Mediamente ha sempre portato avanti almeno due attività in parallelo, più qualche altra a cui nel frattempo ha dato forma nella sua testa.

E anche lui mi sembra sostanzialmente felice.

L’ultima iniziativa che gli è venuta in mente è quella di fondare un’azienda.

In Italia.

Praticamente un pazzo, secondo la gran parte dell’opinione pubblica nostrana.

La sua azienda opererà in un settore consolidato, quello della distribuzione di elettrodomestici e apparecchi tecnologici, attualmente in piena crisi.

Si può ancora innovare il modello di business nelle aziende di distribuzione elettronica?

Partendo dalla convinzione che il potenziale di mercato esiste ancora, mentre è il modello di business ad essere diventato economicamente insostenibile per le aziende, l’approccio che Antonio vuole applicare è fresco e sostanzialmente diverso.

Antonio ha immaginato una nuova classe di acquirenti che hanno oramai assimilato l’esigenza di far quadrare il proprio bilancio domestico, e non sono più attratti né tantomeno indifferenti all’idea dello spreco. L’acquisto non necessario non esprime più uno status.

L’era dell’informazione, complice la crisi, ha creato nuovi interlocutori. Interlocutori consapevoli di quello che realmente serve loro che, con la diligenza del buon padre di famiglia, cercano di procurarsi al minor prezzo.

Ecco che il negozio dovrà trasformarsi da centro di relazione, osservazione e raccolta informazioni a centro di pura distribuzione: la vendita assistita ha un costo che il consumatore consapevole non è più disposto a sostenere.

L’aspetto visivo e logistico sarà pertanto più simile a quello di un magazzino. Si suppone infatti che l’acquirente arrivi già informato rispetto a cosa deve acquistare.

Inoltre, sotto questo aspetto, la presenza del punto vendita si integra con la grande importanza strategica assegnata alla vendita on-line attraverso una piattaforma e-commerce, ed i negozi rappresenteranno in questo senso il luogo fisico che faciliterà il ritiro delle merci comprate da casa.
Questo è il motivo per cui i negozi non avranno personale specializzato nella vendita, ma solo personale addetto a facilitare l’accesso o il ritiro del prodotto.

Un impiegato di Amazon.com afferra una scatola pronta per la spedizione. Un modello a cui Antonio si ispira: niente commessi specializzati, e taglio dei costi di esposizione inutili.

Per contro, verrà potenziato sul canale web il set di informazioni tecniche del prodotto, rese disponibili in negozio tramite la dotazione di tablet, utili anche per la localizzazione dell’item in questo “grande magazzino”.

Sfruttare l’economia digitale per assecondare le inclinazioni della società contemporanea, e nel contempo generare un risparmio di struttura, che può essere ribaltato sull’abbassamento dei prezzi: questo è il succo della strategia complessivamente messa in atto nell’azienda di Antonio.

Reale contro surreale

E’ evidente come Internet abbia svuotato di significato le mappe sociali che parlano di “ceto medio” e di “classe dirigente”, ridisegnando la società sulla base della “dote di conoscenza” piuttosto che di sicurezza e stabilità economica.

Questo è accaduto da un lato per le nuove aperture che Internet ha offerto al business, anche rispetto alla possibilità di “auto-inventarsi” senza più dipendere da una struttura aziendale precostituita. Dall’altro lato, perché ha reso estremamente volatili i canali di accesso ai consumatori, rendendo ardua la fidelizzazione degli stessi.

Questo è reale. La maniera in cui il management di molte aziende continua ad operare è invece surreale.
Personalmente ad esempio, mi viene da sorridere quando un’azienda che vuole esprimere un’immagine “forte” di sé (per esempio in un annuncio per un posto di lavoro) comunica in primis il dato del suo fatturato. Come se il fatto che essa abbia venduto molto sia già di per sé una garanzia di profitto. Come pure una garanzia che riuscirà a trattenere quegli acquirenti a lungo.

Il fatturato è un dato estremamente ambiguo, e se un’azienda lo utilizza come parametro attraverso il quale identificarsi, probabilmente in quell’azienda la tendenza sarà di spingere le vendite, anche a costo di fare margini bassissimi.

D’altronde, i budget aziendali per gli esercizi a venire vengono spesso fissati assumendo una data percentuale di crescita nelle vendite, che rispecchia quello che il mercato e gli investitori si aspettano di osservare.

E allora succede che, nel bel mezzo della crisi economica, i venditori sono soggetti a target impossibili da raggiungere, generando frustrazione e sconforto.

Il problema è che, con tanta enfasi sul fatturato, ci si dimentica spesso che tra il fatturato ed il profitto ci sono tante variabili e tante leve possibili che, se non gestite, rendono estremamente improbabile che si arrivi a chiudere in positivo.

Inoltre, lo sforzo di vendita fatto puntando a percentuali di crescita prestabilite secondo logiche di “buona condotta” diventa estremamente miope laddove il contesto economico è in continuo mutamento.

Questa miopia riguarda tanto il lato della concorrenza (che oggi può davvero arrivare da direzioni inimmaginabili) quanto quello del target di utenza, il quale, come abbiamo osservato, ha cambiato pelle, e continuerà probabilmente a cambiarla sempre più frequentemente.

Nel caso di Antonio invece, è stata messa in atto una strategia aziendale che, partendo da zero, rimodella la struttura nel suo complesso, guardando negli occhi il consumatore di oggi e comprendendone vizi e virtù: questo può essere l’approccio corretto per ridurre la distanza che divide il mondo delle imprese che non vendono da quello dei clienti che, nonostante la crisi, continuano, magari su canali alternativi, ad acquistare.

Noi glielo auguriamo con tutto il cuore.