Quando l’azienda si vede

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La storia di Massimo è una storia concreta.

Concreta perché Massimo ha fondato un’azienda che si vede.

Non ha la sede legale in Lussemburgo, quella fiscale nei Paesi Bassi e quella produttiva a Guangzhou.

L’intera azienda di Massimo è lì, appollaiata sul crinale di una collina marchigiana, esposizione ad est, e, probabilmente, non potrebbe trovarsi da nessuna altra parte.

Massimo l’impresa ce l’ha nel sangue: da quando suo nonno fiuta il potenziale dell’investire nella meccanizzazione e fonda l’azienda agricola, per la famiglia Mancini inizia il legame stretto con la terra, ma anche quello con il territorio.

E’ il 1938, e possedere la trebbia non vuol dire solo lavorare più efficientemente nei campi. Significa anche essere il fulcro di una miriade di rapporti sociali che nascono e si rafforzano durante quei caldi giorni d’estate, in cui decine di persone si scambiano aiuto reciproco per portare a termine insieme la mietitura del grano di tutto il circondario.

Uomini, donne e bambini, nessuno è escluso da questo grande evento annuale, che, al di là della fatica, è vissuto come una festa.

L’economia a quei tempi girava anche grazie al baratto di lavoro e di prodotti agricoli.

Ricchezze “personali”, cioè legate alla presenza umana. Ricchezze fortemente tangibili, che cementavano i rapporti tra le persone fino a renderli necessari per la propria sopravvivenza.

Forse c’era anche mio nonno alla trebbiatura di Mancini, chissà.

Ma io, figlia della globalizzazione, fino a qualche mese fa non sapevo neanche che Mancini, mio vicino di casa, producesse la pasta…

Forse perché è un’impresa giovane? In parte sì:  il pastificio è nato solo nel 2010.

Questione di pubblicità? Sicuramente: Massimo preferisce farsi trovare sui menu dei ristoranti di ottima fama piuttosto che sugli scaffali dei supermercati.

Problema di mercato e di informazione? Si, e questo è stato Massimo a spiegarmelo, io non ci avrei mai pensato.

Massimo, da dove nasce l’idea di fare la pasta?

“Mi sono laureato in agraria nel ’94 a Bologna. Durante il percorso universitario, dopo un primo periodo di scarso entusiasmo per lo studio, ho capito che mi interessavano gli aspetti del marketing e dell’organizzazione applicati all’agricoltura. Ho iniziato a personalizzare il mio piano di studi aggiungendo esami che spaziavano in queste due materie, tanto che sono arrivato a laurearmi con 4 esami in più rispetto al numero obbligatorio. E sono stato premiato, perché un professore mi ha proposto di svolgere la tesi con il supporto del colosso Barilla. Una tesi di loro interesse sul tema dei bisogni del consumatore e delle risposte date dalla filiera del grano duro.

Purtroppo, la sopravvenuta crisi della società in quegli anni mi ha chiuso le porte ad una potenziale assunzione, ma l’esperienza è stata comunque fondamentale.”

 E a quel punto, cosa hai fatto?

“Mi sono iscritto ad un Master in Marketing, ancora a Bologna. In questa occasione ho conosciuto uno dei maggiori esperti di comunicazione italiani, Gianni Marinozzi. Avete presente ‘i pezzettoni Santa Rosa’? Lui.

Grazie a questo incontro fortunato ho avuto la possibilità di lavorare per un altro pastificio, come responsabile di una linea di produzione a soli 27 anni. Lì ho sperimentato sul campo tutti gli aspetti che mi interessavano: dalle tecniche di produzione, alla stesura di un piano di Marketing, sviluppandolo in tutti i suoi aspetti critici, tra cui le modalità di comunicazione del prodotto e il packaging…”

Mondi e modi completamente diversi rispetto a Pasta Mancini: cosa hai compreso nel corso di questi anni?

“Ho visto, e vedo tuttora, un mercato molto ampio, dominato da pochi grandi produttori che hanno scelto di comunicare la pasta come prodotto povero e alla portata di tutti. La pasta è spesso trattata come prodotto civetta nei supermercati, cioè prodotto di basso prezzo utilizzato per attirare il consumatore, che poi finirà con mettere nel carrello altri prodotti con margine maggiore per il venditore… Certo, agli occhi di chi acquista ciò potrebbe apparire anche come un bene, se non fosse che dietro questo meccanismo c’è una spirale negativa per l’economia agricola, oltre che per il consumatore stesso.

La compressione della filiera verso il basso, dovuta al fatto che le regole e i prezzi sono fissati da questo oligopolio del compratore, genera infatti lo spostamento del profitto dai produttori di materie prime all’industria di trasformazione, la perdita di realtà agricole come i contadini e i mulini, i quali non riescono più a sostentarsi con i bassi margini, e la standardizzazione del prodotto finale”

Guardo Massimo e mi chiedo a quel punto se esistano anche spaghetti n° 5 che non cuociono in 8 minuti…

Massimo, in che senso “standardizzazione”?

“L’idea che, come consumatori, abbiamo della pasta è quella di prodotto genuino, semplice e in un certo senso “funzionale”. Funzionale al bisogno di sicurezza che dopo la cottura esso risulti sempre uguale, fedele alle aspettative di chi lo sta preparando. Ecco quindi che la produzione viene fatta in maniera tale da annullare le diversità della materia prima, per ottenere uniformità di consistenza, colore e tempi di cottura.

Questo significa sia intervenire sulle caratteristiche naturali del frumento, con la conseguente perdita di talune capacità nutritive, sia spingere il produttore di grano a non lavorare sulla qualità che non viene riconosciuta in termini di maggiore quotazione.”

In questo momento, mi crolla il mito della pasta italiana per eccellenza, quella che dove c’è…c’e casa. E pensare che quando ho fatto l’Erasmus avrei voluto “esportarla” nella mia valigia all’estero e farne un business…

Massimo, mi stai dicendo che si può fare molto meglio di quello spaghetto n° 5 in confezione blu che cuoce in 8 minuti?

“Non dico che la pasta dei grandi marchi non sia buona. Dico però che nel mio prodotto cerco di enfatizzare e non di appiattire le diversità della materia prima, di valorizzarne le componenti nutrizionali e di sperimentare anche varietà diverse e più antiche di grano. La pasta dovrebbe essere degustata come si fa per il vino, perché non è tutta uguale. Un palato fine potrebbe distinguere molteplici sapori da un assaggio della nostra pasta, magari diversi di annata in annata. Questo lo posso affermare con orgoglio, anche perché so benissimo da dove proviene la materia prima che utilizzo”.

E Massimo mi indica dalla finestra quali sono i campi dove viene coltivato il grano: tanti fazzoletti verdi adagiati sulle colline lì, a portata di mano.

Siamo nei locali adibiti a cucina e spazio ricreativo per i dipendenti.

Il sole batte attraverso finestroni panoramici che si aprono sulla campagna tutta intorno, le colline marchigiane della zona di Monte San Pietrangeli: una splendida zona agricola fatta di morbidi rilievi, case rurali e strade di campagna che corrono tra le vallate e lungo i pendii.

L’azienda è moderna, e perfettamente integrata con il paesaggio.

Massimo ha scelto il legno tra i materiali di costruzione e ha parzialmente interrato lo stabile, sia per ridurre l’impatto ambientale, sia per sfruttare a pieno il tasso di umidità generato naturalmente dal sottosuolo nei locali di produzione, che infatti si trovano sottoterra.

La concretezza è tale che anche l’innovazione qui diventa un concetto fortemente tangibile.

Nonostante il suo forte legame territoriale, l’azienda di Massimo guarda al mondo. Oltre che nei migliori ristoranti italiani, Pasta Mancini ha avuto un ottimo riscontro nei ristoranti di qualità delle grandi metropoli mondiali.

Massimo ci tiene a sottolineare un aspetto che molte volte dimentichiamo: quanto sia facile spendere la nostra italianità all’estero.

Poi ci parla ancora di come funziona il mercato della pasta in Italia e ci spiega la sua filosofia:

“In Italia il raccolto non basta. Il 40% del grano destinato a pasta viene importato, con la necessità di continue norme e controlli sulla tracciabilità.

Il nostro approccio tuttavia è diverso da quello che caratterizza la grande industria che si rivolge massicciamente all’import, e ciò diventa palese se si pensa che il nostro prodotto di 1 anno viene realizzato in 5 ore da un grande stabilimento del colosso Blu.

Anche noi puntiamo all’efficienza. L’obiettivo è di mettere a regime l’impianto di produzione, che attualmente è circa a metà della sua capacità produttiva. Di conseguenza avremo necessità di materia prima, ecco perché miriamo ad arrivare ai 300 ettari di superficie nostra da coltivare. Ma raggiunta l’efficienza, non ci interessa la quantità, ci interessa dare coerenza e “contenuto” a quello che vendiamo”

Massimo mi mostra con orgoglio l’impianto: è stato realizzato da un’azienda italiana di Collecchio, con una serie di personalizzazioni. Massimo si è affidato all’esperienza di una anziano mastro pastaio di Bastia Umbra per istruire la commessa. La macchina infatti si caratterizza per l’aggiunta di un pezzo che, anziché renderla più rapida ed efficiente, rallenta il passaggio dell’impasto.

Un paradosso?

“Mi è stato insegnato il valore del rispetto. Questo mi hanno insegnato mio nonno e mio padre. Ed è questo ciò che cerco di mettere alla base delle mie scelte, anche di natura economica”

Cosa c’entra il rispetto?

In effetti, è proprio in questo sistema aziendale perfettamente integrato con il suo contesto che si realizzano varie forme concrete di rispetto.

Quello per la materia prima, ad esempio, che richiede di essere trattata secondo i ritmi naturali per non perdere le proprie peculiarità.

Il rispetto per la capacità produttiva della terra, che avviene dando coerenza e continuità al raccolto in relazione alla produzione: qui non c’è interesse a produrre pasta con grano che non è stato prima raccolto.

Di conseguenza, l’ambiente è più tutelato, perché non ci sono le forzature tipiche della produzione intensiva e non c’è distanza geografica tra l’agricoltura e la trasformazione del raccolto, il che implica il risparmio di costi ambientali legati allo spostamento della materia prima.

Affidandosi ad esperti e fornitori prevalentemente locali, Massimo sta incentivando lo sviluppo della filiera: non si tratta di una sistematica ricerca del fornitore al miglior prezzo.

Certo, è nella natura del soggetto economico ricercare il prezzo più basso, ma quello che sta avvenendo oggi, nell’agricoltura come in molti altri settori, è piuttosto lo scatenarsi di perverse spirali al ribasso, innescate da una concorrenza sleale proveniente da paesi con minori tutele legislative per i lavoratori e per l’ambiente, piuttosto che da sistemi produttivi intensivi che non pagano adeguatamente il prezzo delle esternalità negative che stanno producendo.

Da un’analisi della Coldiretti su dati Unioncamere dall’inizio della crisi nel 2007 al settembre 2013 hanno chiuso 136.351 stalle ed aziende agricole in Italia. La Coldiretti sottolinea come questo sia avvenuto anche a causa della concorrenza sleale da parte dei prodotti di minore qualità importati come falsi Made in Italy, come pure del modello industriale sbagliato, che ha tagliato del 15% le campagne e ha fatto perdere negli ultimi 20 anni 2,15 milioni di ettari di terra coltivata.

La mancanza di azioni istituzionali verso questi fenomeni, sempre più frequenti nell’economia globale, è molto grave. Si consideri che solo nell’ultimo anno sono stati persi 36.000 posti di lavoro in agricoltura. Inoltre pensate che, sempre secondo Coldiretti, l’Italia produce appena il 70% dei prodotti alimentari che consuma.

Ma in gioco c’è ben di più della perdita di una grandissima opportunità economica per realizzare una ripresa duratura. C’è in ballo anche la sicurezza alimentare e la perdita di presidio sul territorio contro fenomeni di incuria e di cementificazione.

Massimo, chi paga il prezzo di questa qualità “totale” che tu, al contrario di quanto accade in giro, metti in atto?

“La qualità che mettiamo in quello che facciamo ovviamente ha un prezzo, che ricade sul consumatore. Io credo che basterebbe aumentare di 50 centesimi il costo al kg della pasta industriale per consentire di pagare un prezzo più giusto a tutti coloro che intervengono nella filiera, garantendo anche un minore impatto ambientale della produzione.

Eppure sperimentiamo che, a fronte di una opportuna comunicazione, il consumatore non fa fatica a pagare di più il nostro prodotto. Ciò che cerchiamo di instaurare ogni giorno è un rapporto di fiducia.

A volte, e sicuramente lo è in questo caso, si tratta solo di un problema di informazione e di cultura. Pensiamo al lavoro che è stato fatto in questi anni sul vino. Questo andrebbe fatto anche con la pasta.”

Insomma, pur senza mai usarla, abbiamo evocato quella blasonata parola: sostenibilità.

Scusate, ma personalmente non uso volentieri questo sostantivo, per la facilità con cui viene tirato dentro in discorsi in bilico tra il linguaggio tecnico e quello “cool”.

Ecco perché non lo voglio usare per Massimo: non se lo merita, lui che la parola sostenibilità, durante tutta un’intervista, non l’ha nemmeno nominata.

La sostenibilità infatti è nata molto prima della parola “sostenibilita”. Esisteva già nel 1938, e si chiamava rispetto.

 

  • Nunzia Eleuteri

    Conosco il prodotto e ne sono una estimatrice. Soddisfa non solo il palato ma anche l’occhio grazie alla sua confezione così curata. Credo che la qualità debba essere ben presentata e la pasta Mancini risponde appunto anche a questo requisito. Complimenti all’imprenditore, all’agricoltore, al cultore. In un solo nome: complimenti a Massimo Mancini.

    • fabiofraticelli

      Mi viene da dire che quando “sostenibilità” è una parola che non rimane scritta sulla carta ma ispira l’azione concreta di un imprenditore i risultati si vedono e… si gustano!

    • Cristina Mandolesi

      Hai colto un aspetto molto importante del successo di Massimo a mio avviso: l’essere una figura poliedrica.
      Massimo è una persona che ha sperimentato molti mestieri (nel testo non mi sono dilungata, ma prima di arrivare a Pasta Mancini ne ha fatta di strada!) dimostrando curiosità e coraggio. Poi ha preso le sue esperienze e le ha composte come un mosaico, ma la cosa fondamentale è che nel fare questo non ha mai perso la visione d’insieme.
      E’ diventato tante persone in una. Prontezza imprenditoriale e umanità insieme.
      Io credo che questo possa accadere quando c’è passione per quello che si fa.
      Ma la passione nel suo caso arriva dal ruolo quasi “sociale” che si è costruito. Il suo progetto non è utile solo a sè stesso, ma utile per un contesto.
      Io credo che l’etica può essere alla base di un processo creativo e innovativo come il suo, può rappresentare quel collante che tiene insieme tutti i tasselli del mosaico. E per citare il film “La grande Bellezza” forse l’etica c’è quando si “mangiano le radici….perchè le radici sono importanti”.